Non si può certo dire che la giurisprudenza penale sull’offensività della condotta di chi coltiva cannabis sia consolidata. L’ultima del Palazzaccio è un passo indietro sulla rilevanza penale della coltivazione di tale erba ad uso personale (almeno fintanto che la pianta non sia ancora giunta a maturazione completa, in modo tale da ottenere il principio attivo drogante).
Con la sentenza n. 1222/09, infatti, la IV Sezione penale accoglieva il ricorso di un uomo che era stato condannato ad 1 anno e 4 mesi di carcere e 7 milioni di lire di multa (in primo ed in secondo grado di giudizio) per aver coltivato piantine si sostanza stupefacente. I giudici di merito sostenevano che tale attività integrasse gli estremi di reato indipendentemente dalla maturazione delle piante stesse. La Cassazione, dal suo canto, ha contestato tale esegesi, sottolineando che “in concreto non è rilevabile l’effetto stupefacente in una pianta il cui ciclo non si è completato e che quindi non ha prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza dei principi attivi“.
In soldoni, il principio elementare del ragionamento de quo è se la semplice cura di tali piante costituisca una condotta offensiva del bene giuridico tutelato dalla fattispecie normativa, id est la salute. A tal riguardo, recenti Sezioni Unite (sentenza n. 28605/08) avevano da un lato affermato l’offensività in astratto della coltivazione a qualunque titolo di pianta stupefacente, ma avevano poi dall’altro invitato il giudice ad una verifica in concreto dell’offensività specifica della condotta incriminata.