Importante decisum delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione. Con sentenza n. 22676 del 29/5/2009, infatti, gli Ermellini hanno statuito che lo spacciatore non può essere sempre considerato colpevole per la morte del proprio “cliente”; occorre provare il nesso eziologico tra cessione e decesso e, soprattutto, che quest’ultimo sia in concreto “rimproverabile” all’agente, aliis verbis occorre dimostrare la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto.
La Cassazione richiama un arresto della Corte Costituzionale (cfr. n. 322/07), ove risultava patente che il principio di colpevolezza richiedesse una forma di partecipazione – almeno – psichica dell’autore al fatto. In sostanza, tutto dipende dall’importanza che il legislatore attribuisce ad un bene giuridico oggetto di tutela: se esso è stimato costituzionalmente preponderante, allora il quid minimum sarà la colpa (anzichè il dolo) in aggiunta ad un grado di attenzione maggiore rispetto all’id quod plerumque accidit.
In caso di spaccio di sostanze stupefacenti, considerato il bene giuridico in gioco (il bene-vita) nonchè la pericolosità dell’affare trattato, l’agente verrebbe giustamente responsabilizzato enormemente qualora egli ritenesse che la droga da alienare fosse pericolosa. Tuttavia, la colpa del cd. “pusher” non potrà mai essere ritenuta esistente quando vi sia un’astratta prevedibilità della morte dell’assuntore. Egli, in altre parole, sarà esente da responsabiltià in tutti i casi in cui il decesso risulti in concreto imprevedibile ed improbabile (pur possibile). Casi tipici sono la contemporanea assunzione di alcol, psicofarmacialtre malattie: qui nulla è esigibile da parte dello spacciatore, il quale risponderà invece di omicidio (doloso) quando diffonda droga scientemente mescolata con altre sostanze (tipicamente, “tagliata male”).