Nessuna presunzione legale pro Fisco nei confronti del contribuente professionista che non sia in grado di dimostrare le destinazioni dei prelievi dai propri conti correnti.
Gli uffici dell’agenzia delle entrate hanno finalmente iniziato a seguire i dieta dell’importante sentenza N. 228/2014 del 6 ottobre della Corte Costituzionale.
Di fatto, gli uffici devono verificare caso per caso i prelievi. Se infatti la presunzione di maggiori ricavi può avere un senso per i redditi d’impresa, per i professionisti ciò è fuori luogo poiché, all’eventuale acquisto di un bene non fatturato, non consegue una prestazione in evasione d’imposta, mancando una correlazione tra costi e compensi.
Nei fatti, la presunzione nei confronti dei professionisti è lesiva del principio della ragionevolezza e capacità contributiva, poiché è paradossale sostenere che i prelievi ingiustificati di un lavoratore autonomo siano destinati, anziché ai bisogni familiari, a – presunti – investimenti nell’attività professionale e che ciò sia addirittura produttivo di reddito, come se un professionista acquistasse e rivendesse merce in nero.
La Finanziaria del 2004 (l. n. 311/04) aveva infatti modificato la legislazione sulle indagini finanziarie, estendendo anche ai titolari di reddito da lavoro autonomo le presunzioni sui prelevamenti in caso di mancata indicazione del beneficiario. Se pertanto il professionista non fosse stato in grado di indicare la destinazione degli importi riscossi, l’Ufficio li avrebbe ritenuti automaticamente maggiori compensi.
In conseguenza di ciò, sono conseguiti numerosi accertamenti nei confronti di professionisti, i quali, spesso a distanza di tempo, si sono trovati nell’impossibilità di documentare i prelevamenti, di solito eseguiti per scopi personali e/o familiari.
L’ordinanza n. 27/29/2013 della CTR Lazio, che aveva investito la Consulta della questione, poneva in seria discussione la costituzionalità di questa norma, poiché estendeva irragionevolmente ai redditi da lavoro autonomo la presunzione “costi-ricavi” propria del reddito d’impresa.
Tuttavia, in quest’ultimo caso una ratio c’è: i prelevamenti non giustificati possono essere sintomatici di acquisto di beni “in nero”, in seguito rivenduti anch’essi “in nero”. Per i professionisti, invece, quest’assunto è fuori luogo, poiché all’eventuale acquisto di un bene non fatturato non consegue una prestazione in evasione d’imposta, deficitando una correlazione tra costi e compensi.
La Corte Costituzionale accedeva alla tesi della corte di merito, ritenendo che la norma in oggetto – art. 32 comma 1 numero 2 d.P.R. n. 600/73 – fosse incostituzionale nella parte in cui essa estende la presunzione ai maggiori compensi.
Secondo la Corte, anche se esistono affinità tra imprenditore e lavoratore autonomo nel diritto interno e comunitario, vi sono tuttavia alcuni aspetti specifici del professionista che portano a negare l’omogeneità di trattamento ex art. 32, che prevede una mera equazione tra prelevamento dal conto corrente bancario e costo produttivo di un ricavo (occulto).
L’attività di un professionista si caratterizza per la predominanza del lavoro intellettuale proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo. Da ultimo, non per importanza, v’è da osservare che il regime fiscale spesso adoperato è quello della contabilità semplificata, dove è naturale la promiscuità di entrate e spese personali e professionali.
Da “Il Sole 24ore” del 25 ottobre 2014