La sentenza n. 21317 del 6 ottobre 2009 (di cui si è già discusso in questo blog) è certamente di non poco momento nell’ambito della vexata queastio della ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c nel complesso sistema del processo tributario.

Il casus oggetto di attenzione da parte del Palazzaccio è un topos in subiecta materia: la GdF contestava al contribuente l’esistenza di costi e ne determinava conseguentemente l’indeducibilità ai fini reddituali. La difesa del contribuente si deduce non dal testo della sentenza ma aliunde: correttezza fatture ricevute, registrazione dei documenti, pagamento del corrispettivo ed inerenza dell’acquisto.

Nell’arresto di cui parliamo, la Cassazione coglie l’occasione per un esame – funditus – del problema della ripartizione dell’onere della prova. L’art. 2697 c.c. dovrebbe porre a carico del fisco l’onere di provare le pretese ccdd. “in aumento” ed a carico del contribuente l’onere di provare le cause diminutive del reddito ovvero estintive della maggiore pretesa azionata dall’Age. In tema di fatture false (rilevanti sia ai fini Irpef che Iva) ci si domanda se il costo da esse relazionato sia una deminutio patrimonii (quindi con onere della prova sul contribuente), ovvero se sia un aumento del quantum dovuto (onere sull’Ufficio). Gli Ermellini hanno in questo caso optato per la seconda ipotesi.

Ne consegue che la dimostrazione dell’aumento del reddito (e Iva) è posta a carico dell’Age non soltanto allorchè vi sia una classica rettifica in aumento delle operazioni attive (id est, omessa fatturazione di cessioni/prestazioni), bensì anche quando l’aumento della pretesa fiscale è il precipitato della negazione di un componente negativo (id est, di un costo).